Il Rapporto Wolfenden e i tabù dell’omosessualità: cosa rivelava davvero il documento degli anni ’50

Rapporto Wolfenden

Quando si parla di libertà sessuale e di diritti civili, il nome del Rapporto Wolfenden spicca come uno spartiacque nella storia del Regno Unito. Nel dopoguerra la questione dell’omosessualità non era soltanto un tema morale, ma un problema di ordine pubblico e di diritto penale. La normativa ereditata dall’età vittoriana criminalizzava le relazioni tra uomini e legittimava una vasta opera di polizia, fatta di pedinamenti, infiltrazioni e processi che spesso rovinavano vite e carriere. Nel 1954, dopo una serie di casi giudiziari clamorosi e un crescente disagio tra magistrati, medici e opinione pubblica, il governo istituì una commissione d’inchiesta guidata da Sir John Wolfenden. Tre anni più tardi, nel 1957, quel lavoro confluirà nel Rapporto Wolfenden, un documento che, pur cauto nella forma, introdusse un principio destinato a cambiare la storia: la legge non deve intervenire nella vita privata e consensuale degli adulti.

L’omosessualità nell’Inghilterra degli anni Cinquanta

Alan Turing
Alan Turing

All’inizio degli anni Cinquanta l’impianto normativo che regolava la sessualità maschile tra adulti era dominato dalla Criminal Law Amendment Act del 1885, la cosiddetta “Labouchere Amendment”, che puniva gli “atti osceni” con pene severe e definizioni ampie. In pratica, qualsiasi atto intimo tra uomini poteva tradursi in un reato. A questa cornice si affiancavano reati più antichi come la sodomia, mentre l’omosessualità femminile non era contemplata dalla legge, rimanendo invisibile al diritto. In concreto, migliaia di uomini finirono sotto processo nel solo decennio, e le statistiche carcerarie segnalavano un aumento costante dei condannati per “offese morali”.

La vita quotidiana degli uomini gay si svolgeva in spazi liminali, tra locali privati, club discreti e luoghi pubblici di incontro periodicamente controllati dalla polizia. La pratica dell’entrapment, con agenti in borghese che provocavano abboccamenti per poi arrestare gli interlocutori, era diffusa e sostenuta da una stampa spesso sensazionalistica. La medicina ufficiale oscillava tra diagnosi patologizzanti e terapie coercitive, come la castrazione chimica, che colpì figure note come Alan Turing nel 1952. Il risultato fu un clima di paura, in cui il segreto diventava strategia di sopravvivenza e la reputazione poteva svanire per una denuncia.

Gli scandali giudiziari del primo quinquennio, come il processo del 1954 al barone Montagu di Beaulieu con Michael Pitt-Rivers e Peter Wildeblood, scossero l’opinione pubblica oltre i circoli militanti. Per la prima volta, una parte della stampa mise in discussione la sproporzione delle pene e l’ipocrisia sociale, mentre giuristi e religiosi invocavano una riflessione sul confine tra peccato e reato. In questo contesto maturò l’idea di una commissione indipendente che raccogliesse prove, ascoltasse esperti e proponesse linee di riforma.

La commissione Wolfenden

Sir John Wolfenden
Sir John Wolfenden

La Home Office, sotto la pressione incrociata di scandali e statistiche, nel 1954 istituì una commissione di quindici membri presieduta da Sir John Wolfenden, accademico e amministratore universitario di lunga esperienza. Il gruppo includeva magistrati, medici, psichiatri, ecclesiastici e studiosi, così da coprire il ventaglio delle competenze necessarie. L’incarico era chiaro: esaminare la legislazione sull’omosessualità maschile e sulla prostituzione femminile, valutare gli effetti reali delle norme e formulare raccomandazioni per un’eventuale riforma.

Il lavoro, protrattosi per tre anni, combinò audizioni formali, analisi di casi giudiziari e consultazioni con professionisti della giustizia e della polizia. Fu un percorso non privo di ostacoli, perché molti possibili testimoni temevano l’esposizione pubblica. Ciononostante, la commissione riuscì a raccogliere un quadro abbastanza completo di abusi, prassi investigative discutibili e costi sociali della criminalizzazione. Emersero anche voci del mondo medico che, pur con cautele, ridimensionavano letture patologiche dell’omosessualità maschile e sottolineavano l’inutilità penale della repressione di comportamenti privati.

Nel settembre 1957 la commissione pubblicò il Rapporto Wolfenden. La tesi centrale era netta: lo Stato deve limitarsi a tutelare l’ordine pubblico e i soggetti vulnerabili, senza invadere la sfera privata quando gli atti avvengono tra adulti consenzienti. Da questo principio discendeva la raccomandazione di depenalizzare i rapporti omosessuali maschili in privato tra maggiorenni, con un’età di consenso fissata a ventun anni. Sul fronte della prostituzione, il Rapporto suggeriva di intervenire soprattutto sugli aspetti di disturbo della quiete pubblica, spostando l’attenzione dalla moralità dei comportamenti alla loro visibilità e al loro impatto sociale.

Reazioni, dibattito pubblico e percorso politico

La pubblicazione del Rapporto accese un dibattito immediato. Una parte della stampa salutò il documento come un passo necessario verso una società più giusta, mentre altre testate lo definirono una resa alla decadenza morale. Le chiese si divisero: in seno alla Chiesa d’Inghilterra emersero posizioni dialoganti, pronte a distinguere tra peccato teologico e reato civile, mentre voci più conservatrici invocarono il mantenimento di una normativa esemplare. La comunità medica mostrò un approccio più pragmatico, sottolineando l’assenza di benefici sociali delle persecuzioni e gli effetti deleteri sul benessere psichico degli imputati.

In Parlamento, tuttavia, prevalse la prudenza. Nel breve periodo non si tradussero in legge le raccomandazioni principali, e vari tentativi di iniziativa legislativa privata caddero fra il 1958 e il 1960. Proprio in reazione alla lentezza politica nacque nel 1958 la Homosexual Law Reform Society, un’associazione che coinvolse giuristi, intellettuali e attivisti con l’obiettivo di trasformare le tesi del Rapporto in norme effettive. Le sue campagne contribuirono a tenere il tema nell’agenda pubblica, creando un terreno favorevole a future riforme.

Sul piano culturale, la discussione si allargò grazie al cinema e alla letteratura. Nel 1961 il film “Victim”, interpretato da Dirk Bogarde, portò nelle sale una storia di ricatto omosessuale, rendendo tangibile al grande pubblico il paradosso di una legge che favoriva estorsioni e violenze. Il racconto cinematografico, insieme a libri e inchieste giornalistiche, rese più vicino il vissuto di migliaia di uomini, sostenendo l’idea che la privacy non potesse essere un reato.

Il dibattito Hart–Devlin e l’impatto intellettuale

Il Rapporto Wolfenden non rimase confinato al perimetro politico, ma alimentò un confronto teorico destinato a segnare la filosofia del diritto del Novecento. Lord Patrick Devlin, giudice e filosofo del diritto britannico di spicco, sostenne che una società ha bisogno di una morale condivisa e che la legge deve difenderla, anche sanzionando condotte private ritenute distruttive del tessuto comune. A questa visione replicò H. L. A. Hart, uno dei più importanti filosofi del diritto del XX secolo, richiamandosi al principio del danno e alla tradizione liberale. La funzione del diritto penale è prevenire torti e lesioni concreti, non imporre una visione etica.

Questo scambio, divenuto celebre come “Hart–Devlin debate”, mise a fuoco l’eredità più duratura del Rapporto Wolfenden: la separazione tra morale e reato, tra peccato e illecito. Nel frattempo, il discorso medico si muoveva con maggiore cautela ma in direzione analoga, sgretolando l’idea che l’omosessualità fosse una patologia di per sé e ridimensionando le pretese terapeutiche coatte che avevano segnato gli anni precedenti.

Sul terreno pratico, il Rapporto Wolfenden contribuì a spostare la conversazione pubblica dal giudizio morale astratto all’analisi delle conseguenze reali della criminalizzazione. La domanda non era più “che cosa condanniamo”, ma “che cosa otteniamo con la condanna”. Questo cambio di sguardo aprì lo spazio per un riformismo graduale, che avrebbe trovato un primo approdo dieci anni dopo.

Dalla proposta alla legge: la Sexual Offences Act del 1967 e i suoi limiti

manifestazioni gay

La riforma arrivò nel 1967 con la Sexual Offences Act, sotto il governo laburista di Harold Wilson. La legge depenalizzò gli atti omosessuali tra uomini adulti consenzienti, a condizione che avvenissero “in privato” e con un’età minima di ventun anni. La definizione di “in privato” rimase restrittiva, escludendo ad esempio gli alberghi e qualsiasi situazione in cui fossero presenti più di due persone, un dettaglio che mantenne margini di criminalizzazione residua e alimentò contenziosi negli anni successivi.

La riforma si applicò inizialmente a Inghilterra e Galles. La Scozia avrebbe depenalizzato nel 1980, l’Irlanda del Nord nel 1982, mentre l’uguaglianza dell’età del consenso sarebbe arrivata molto più tardi, con un lento allineamento alla soglia dei sedici anni. Il nuovo quadro normativo non annullò del tutto pratiche di polizia e reati connessi alla “pubblica decenza”, ma segnò una cesura storica. La vita privata smetteva di essere un crimine per definizione.

L’eco del Rapporto Wolfenden travalicò i confini britannici. La sua impostazione di principio, fondata sulla distinzione fra morale e diritto penale, fu osservata e discussa in altri paesi europei, entrando nei manuali di filosofia del diritto. Fu da esempio per riforme successive. Al tempo stesso, i suoi limiti furono evidenti: assenza di riferimenti all’omosessualità femminile, forte enfasi sulla rispettabilità e sulla discrezione, età del consenso più alta rispetto agli eterosessuali.

Il Rapporto Wolfenden e l’eredità futura

Sul piano culturale, il Rapporto Wolfenden inaugurò un linguaggio nuovo per parlare di diritti e libertà. La privacy divenne un concetto operativo, non solo un valore astratto. Questo mutamento favorì la nascita di gruppi organizzati e, negli anni Settanta, di movimenti più radicali che rivendicarono non solo la fine della repressione, ma il riconoscimento pubblico delle relazioni e delle identità. La giurisprudenza, nel frattempo, cominciò a misurarsi con casi che ridefinivano volta per volta i confini del “privato”.

Infine, l’eredità più duratura è forse questa: avere messo lo Stato di fronte al limite del proprio potere punitivo. Il Rapporto Wolfenden non sosteneva l’omosessualità, né pretendeva di normare l’etica privata. Chiedeva semplicemente che il diritto penale non fosse lo strumento per regolamentare l’intimità. È su questa premessa che, lentamente, il Regno Unito ha potuto avviare il lungo percorso verso l’uguaglianza legale.

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