Situato al largo della costa sud-orientale dell’Africa, il Madagascar è una grande isola, crocevia di civiltà. Per secoli, fu conteso tra le potenze coloniali europee, attratte dalla sua posizione strategica e dalle sue risorse naturali. Ma il Madagascar non fu solo teatro di conquiste: fu anche terra di sovrani indipendenti, di missionari stranieri, di resistenze locali e di una cultura affascinante che seppe sopravvivere e adattarsi.
L’isola d’oro e la sua scoperta
Nel XVII secolo, il Madagascar era noto in Europa come “l’isola d’oro”, una terra favolosamente ricca e strategica, ambita da Francia e Gran Bretagna. Scoperto il giorno di San Lorenzo nel 1500 dal navigatore portoghese Diego Diaz e inizialmente chiamato Insula Sancti Laurentii, il Madagascar attirò per la sua posizione e le sue ricchezze leggendarie.
L’isola acquisì fin da subito una fama mitica tra gli europei, che la immaginavano ricca di oro, ambra grigia e risorse naturali esotiche. La sua scoperta avvenne quasi per caso, quando la nave di Diego Diaz fu spinta fuori rotta durante un viaggio verso l’India. Per i secoli successivi, il Madagascar restò avvolto da un alone di mistero. Troppo vasto e complesso per essere esplorato facilmente, ma abbastanza accessibile da restare costantemente nei piani di espansione delle potenze coloniali europee.
I primi tentativi di colonizzazione

Tra il XVII e il XVIII secolo, entrambe le potenze coloniali europee cercarono di stabilire un controllo duraturo sull’isola. Gli inglesi progettarono una spedizione nel 1644, che avrebbe dovuto essere guidata dal principe Rupert. Il poeta Sir William Davenant celebrò l’impresa nel suo poema Madagascar, immaginando il principe come il sovrano di una futura colonia britannica. Tuttavia, la spedizione partì senza di lui e si rivelò un disastro. Dei 140 coloni iniziali, solo una manciata tornò in patria, senza aver trovato oro, perle o altre ricchezze.
I francesi avevano preceduto gli inglesi con una spedizione nel 1642, sostenuta dal potente cardinale Richelieu. I coloni francesi fondarono Fort Dauphin su un promontorio nella parte sud-orientale dell’isola. Anche loro sognavano un paradiso terrestre, ma si scontrarono con la dura realtà. Difficoltà logistiche, malattie tropicali e conflitti con le popolazioni locali decimarono il loro numero. Nel 1672, il forte fu definitivamente abbandonato dopo ripetuti massacri e fallimenti. Questi primi insuccessi non fermarono però l’interesse europeo per il Madagascar, che continuò a essere percepito come una meta ambita e strategica.
La figura di Robert Drury e le suggestioni letterarie
Il nome di Robert Drury ha rilevanza nella storia del Madagascar grazie all’opera pubblicata nel 1729 a Londra dal titolo Madagascar, or Robert Drury’s Journal. Il libro narra le memorie di un giovane londinese naufragato nel 1701 al largo della costa sud-orientale dell’isola, nei pressi di Fort Dauphin, e catturato dalla tribù Antanandroy. Drury, all’epoca sedicenne, racconta di essere stato tenuto in servitù per quindici anni, durante i quali avrebbe imparato la lingua locale e vissuto da osservatore della vita delle popolazioni indigene.
Il diario, però, ha suscitato sin dall’inizio dubbi sull’autenticità del racconto. La narrazione è estremamente dettagliata, e sorprendentemente in linea con le descrizioni fornite un secolo prima da Étienne de Flacourt, di cui riprende persino la mappa. Ciò ha spinto molti studiosi a ipotizzare che il libro sia stato parzialmente, se non interamente, redatto da Daniel Defoe, autore del Robinson Crusoe, utilizzando fonti preesistenti e costruendo una figura fittizia, ma ispirata a eventi reali. Questa teoria è avvalorata dalla presenza nel testo di un vocabolario malgascio-inglese, la cui origine resta oscura, ma che alcuni ipotizzano possa provenire da pirati inglesi di stanza nell’area, con cui Defoe avrebbe potuto avere contatti.
Tuttavia, tracce storiche indicano che un ragazzo con il nome di Robert Drury fu realmente a bordo della Degrave, una nave mercantile naufragata nel 1701 lungo la rotta da Bombay a Londra. Questo dato dà consistenza alla tesi che Drury possa essere esistito davvero, anche se la sua prigionia fu probabilmente romanzata.
Benyowski e l’illusione della conquista

Tra i personaggi più singolari che abbiano cercato di stabilire un dominio europeo sul Madagascar figura senza dubbio Maurice Benyowski, avventuriero di origini polacco-ungheresi, esploratore, autodidatta e autoproclamato conte. La sua vicenda si colloca nella seconda metà del XVIII secolo, in un contesto in cui la Francia, pur avendo perso parte dei suoi possedimenti in India e in America settentrionale, cercava ancora di consolidare il proprio impero nell’Oceano Indiano.
Nel 1773, Benyowski riuscì a convincere la corte di Luigi XV a finanziargli una spedizione con lo scopo di fondare una colonia permanente sul Madagascar. Benyowski stabilì una base sulla costa nord-orientale, dove tentò di instaurare rapporti diplomatici con le popolazioni locali. Riferì ai suoi finanziatori parigini di aver sottomesso pacificamente l’intera isola nel giro di sei settimane, un’affermazione chiaramente esagerata. In realtà, il suo controllo non si estese mai oltre una ristretta area costiera e dipese largamente dalla sua abilità nel manipolare alleanze locali e sfruttare rivalità tra i clan.
I resoconti su Benyowski
Ciononostante, il suo carisma personale e la teatralità delle sue imprese gli valsero grande popolarità sia tra i Malgasci che in Europa. I resoconti raccontano che Benyowski seppe affascinare i capi locali con uno stile regale e una certa magnanimità. Fu celebrato da alcuni come un sovrano illuminato e autoproclamatosi “Re del Madagascar” con il consenso, almeno simbolico, di alcuni leader tribali. La sua permanenza sull’isola fu però breve e segnata da ostacoli crescenti. Il governo francese, insospettito dalla sua condotta autonoma e dalle sue richieste sempre più ingenti, inviò una commissione per ispezionare i suoi progressi.
L’esito dell’ispezione fu disastroso per Benyowski. Le magnifiche città da lui descritte nelle lettere esistevano solo sulla carta, e le “strade” tracciate nei rapporti ufficiali erano poco più che sentieri nella giungla. I suoi rapporti con Parigi si interruppero, e tutte le porte gli furono chiuse. Nonostante ciò, l’avventuriero non si arrese. Tornato in Europa, cercò appoggi prima presso l’imperatore d’Austria e poi presso la corte britannica. Nessuno dei due Paesi si mostrò disposto a finanziare la sua impresa.
Di nuovo in Madagascar
Fu solo grazie all’intercessione di Benjamin Franklin che riuscì a ottenere il sostegno di una compagnia anglo-americana con sede a Baltimora. Nel 1785, salpò di nuovo per il Madagascar, stavolta con ambizioni ancora più esplicite. Benyowski voleva diventare il governatore sovrano dell’isola sotto protezione americana. La mossa allarmò i francesi, che temevano di perdere definitivamente l’influenza sull’isola. Il governatore dell’Île de France (Mauritius) inviò una forza armata per reprimere Benyowski, considerato ormai una minaccia politica. Lo scontro avvenne nel 1786 e si concluse con la morte di Benyowski in battaglia.
Nonostante il suo fallimento, Benyowski divenne una figura leggendaria. I Malgasci ne conservarono il ricordo come quello di un capo giusto e generoso. Una montagna porta ancora oggi il suo nome. La sua fama fu tale che, pochi anni dopo la sua morte, le sue memorie furono pubblicate a Londra nel 1790, diventando un sorprendente successo editoriale. Tradotte in più lingue, alimentarono il mito dell’avventuriero romantico che aveva tentato di creare un regno indipendente tra i tropici.
L’ascesa del regno Merina

Verso la fine del XVIII secolo, in una fase in cui gran parte del Madagascar restava ancora terra incognita per gli europei, sugli altopiani centrali dell’Imerina emerse una realtà politica solida e articolata: il regno Merina. La popolazione Merina, di chiara origine austronesiana, era caratterizzata da tratti somatici asiatici e da una lingua — il malgascio — strettamente imparentata con il malese e le lingue del sud-est asiatico. Questo popolo aveva attraversato l’Oceano Indiano duemila anni prima, insediandosi sull’isola e imponendosi progressivamente come forza dominante.
Il protagonista della fondazione dello Stato Merina fu Andrianampoinimerina (1787–1810), un sovrano carismatico che riuscì a riunificare i clan sparsi della regione montuosa dell’Imerina, attorno ad Ambohimanga, capitale spirituale e regale, oggi patrimonio dell’umanità UNESCO. La sua affermazione politica fu accompagnata da una forte legittimazione simbolica. Egli si proclamava discendente degli antenati divinizzati e portava il diritto esclusivo all’ombrello rosso, emblema del potere regale tra i Merina.
Organizzazione della monarchia Merina
Sotto il suo regno, la monarchia Merina si strutturò con elementi burocratici rudimentali, un apparato militare organizzato e una gestione centralizzata della produzione agricola, fondata sulla coltivazione intensiva del riso nelle vaste risaie di Betsimitatatra. L’ambizione di Andrianampoinimerina era chiara: “i confini della mia risaia sono il mare” era il motto che sintetizzava la volontà di unificare l’intera isola sotto un’unica sovranità.
A lui successe il figlio Radama I (regno 1810–1828), figura fondamentale nella modernizzazione del Madagascar. Uomo colto e aperto al mondo, Radama strinse alleanze con il Regno Unito, in particolare con Sir Robert Farquhar, governatore britannico di Mauritius. Grazie a questa collaborazione, il sovrano Merina poté ottenere supporto militare, forniture belliche e addestramento per il suo esercito, in cambio della promessa di porre fine alla tratta degli schiavi.
Radama I

Radama I comprese anche l’importanza della conoscenza e della tecnologia. Accolse con favore i missionari della London Missionary Society, che fondarono scuole, diffusero l’alfabetizzazione e introdussero l’uso della lingua malgascia scritta con l’alfabeto latino. Fu un momento cruciale nella storia culturale dell’isola. Per la prima volta, l’identità malgascia si articolava non solo come realtà etnica, ma anche come costruzione statale, linguistica e religiosa.
Con Radama I, il Madagascar passò da un insieme frammentato di tribù e regni a una proto-nazione con legami internazionali, strutture statali e una chiara visione di sviluppo. La sua morte prematura segnò una svolta e aprì la strada a un periodo più oscuro. Tuttavia il suo regno rappresenta ancora oggi una delle fasi più luminose dell’indipendenza politica precoloniale dell’isola.
Missionari, alfabetizzazione e cristianesimo
L’arrivo dei missionari europei a Madagascar, all’inizio del XIX secolo, segnò un punto di svolta decisivo non solo nella storia religiosa dell’isola, ma anche nella sua evoluzione linguistica, culturale e istituzionale. A partire dal 1818, sotto l’egida della London Missionary Society (LMS), i primi missionari britannici iniziarono a operare nel regno Merina, spinti da un fervente zelo evangelico e dalla convinzione che l’introduzione del cristianesimo avrebbe potuto trasformare la società malgascia.
I primi protagonisti furono i gallesi David Jones e Thomas Bevan, che giunsero ad Antananarivo con le rispettive famiglie. Entrambi pagarono un alto prezzo per il loro impegno. Bevan, sua moglie e i figli morirono nel giro di pochi mesi a causa delle febbri tropicali, mentre Jones, unico sopravvissuto, fu costretto a ritirarsi temporaneamente a Mauritius. Nonostante ciò, nel 1820 tornò in Madagascar, dove venne accolto favorevolmente dal sovrano Radama I, desideroso di aprire il proprio regno alle conoscenze tecniche e culturali europee.
La lingua malgascia
Radama comprese presto che il cristianesimo, al di là della sua dimensione religiosa, portava con sé competenze utili: alfabetizzazione, architettura, medicina, artigianato. Su suo ordine fu avviata una vera e propria campagna di scolarizzazione, e venne promosso un ambizioso progetto linguistico. La creazione di una scrittura standard per la lingua malgascia, fino ad allora esclusivamente orale. Fu scelto l’alfabeto latino, con una particolare combinazione di vocali francesi e consonanti inglesi, riflesso delle diverse influenze europee presenti sull’isola. Radama stesso sapeva scrivere un po’ d’arabo, ma adottò i caratteri romani per favorire la diffusione della scrittura tra il suo popolo.
Nel 1823, i missionari riuscirono a stampare i primi libri in lingua malgascia. Il più importante di questi fu senza dubbio la Bibbia tradotta in malgascio, che divenne il testo fondante della nuova cultura scritta locale. La grammatica della lingua venne sistematizzata, furono prodotti dizionari e materiali educativi. La scuola divenne un centro propulsore di modernizzazione. Il lessico malgascio incorporò numerosi prestiti dall’inglese, ancora oggi visibili. L’impatto linguistico dei missionari fu così duraturo da segnare persino la toponomastica e il vocabolario tecnico moderno. Ma non solo. Il cristianesimo portato dai protestanti inglesi si fuse con elementi della religiosità locale, dando origine a una forma di devozione sincretica, più partecipata che imposta, almeno nei primi decenni.
Scuola missionaria
La scuola missionaria, oltre a insegnare a leggere e scrivere, divenne il fulcro di una nuova etica pubblica fondata sul lavoro, sull’istruzione e sul senso di responsabilità individuale. Per Radama I, tutto ciò si integrava perfettamente con la sua visione di uno Stato moderno, capace di resistere alle pressioni coloniali attraverso il rafforzamento delle proprie istituzioni.
Il sovrano fu anche il primo a essere rappresentato nella storiografia europea come un “monarca illuminato” africano. Il suo entusiasmo per gli strumenti europei – tra cui orologi, telescopi e giochi da tavolo come il whist, insegnatogli dall’irlandese James Hastie, emissario britannico e suo amico personale – si affiancava al suo impegno riformista. Sotto la sua guida, il Madagascar visse un periodo di apertura verso l’esterno, e la religione cristiana sembrò inizialmente radicarsi senza grandi opposizioni.
Morte di Radama
Tuttavia, la morte di Radama nel 1828, a soli trentacinque anni, cambiò radicalmente la situazione. Gli equilibri interni della corte Merina si spezzarono. A trono salì la vedova e cugina del re, Ranavalona I, che avrebbe intrapreso una feroce repressione del cristianesimo e dei missionari stranieri. Il periodo di fioritura culturale e religiosa inaugurato dai missionari protestanti lasciò quindi spazio a una lunga stagione di oscurantismo, ma le fondamenta poste in quegli anni sarebbero riemerse con forza decenni dopo.
Ranavalona I: repressione e isolamento

Alla morte di Radama I nel 1828, il Madagascar si trovò di fronte a una brusca inversione di rotta. Al trono salì la sua vedova e cugina, Ranavalona I, che passerà alla storia con l’epiteto di la Terribile, a causa del suo regno autoritario e della feroce persecuzione che impose contro i cristiani e gli stranieri. Se Radama aveva aperto l’isola all’influenza europea, Ranavalona si impegnò con uguale determinazione a chiudere ogni porta. La sua era una visione conservatrice, fortemente ancorata alla religione tradizionale malgascia e al culto degli antenati.
Nel corso dei suoi 33 anni di regno (1828–1861), Ranavalona mise in atto un programma sistematico di restaurazione culturale e religiosa, volto a cancellare l’impronta europea introdotta da Radama. Ristabilì il potere degli idoli ancestrali, bandì l’insegnamento missionario e chiuse i porti del regno, interrompendo i contatti diplomatici e commerciali con le potenze straniere. I missionari cristiani furono espulsi o messi sotto stretta sorveglianza. La popolazione convertita fu costretta a rinunciare pubblicamente alla nuova fede, pena l’esilio, la tortura o la morte.
La regina Terribile
Tra le pratiche più crudeli imposte dalla regina vi fu la temuta “prova del Tanguena”, un rituale giudiziario tradizionale basato sull’ingestione di una pozione tossica derivata dalla pianta Tangena. Il sospettato di un crimine – o, spesso, un cristiano accusato di eresia – doveva ingerire il veleno insieme a pezzi di pelle di pollo fritto e acqua di riso. Se rigettava interamente i pezzi, era dichiarato innocente. Altrimenti, veniva condannato. Molti morivano direttamente per l’effetto tossico. Si stima che decine di migliaia di persone siano morte in questo modo durante il regno di Ranavalona.
Un episodio emblematico fu il grande kabary del 1835, durante il quale la regina, di fronte a un’enorme assemblea di oltre centomila sudditi e con l’esercito schierato alle sue spalle, proclamò ufficialmente il bando del cristianesimo. Ai credenti fu dato un mese di tempo per rinnegare la nuova religione. Molti fuggirono o si nascosero, altri furono martirizzati. Nonostante la persecuzione, alcune Bibbie sopravvissero nascoste, e gruppi cristiani continuarono a riunirsi in segreto, mantenendo viva la fede in una forma clandestina e resistente.
Sprazzi di modernità
La regina, pur ostile alla religione cristiana, non era priva di lungimiranza politica. Tollerò per un periodo la presenza di artigiani e tecnici europei, sfruttandone le competenze. Un esempio fu lo scozzese James Cameron, che riuscì a completare la traduzione della Bibbia malgascia e a costruire edifici in pietra, incluso un importante complesso scolastico e diverse strutture amministrative. Ma il caso più emblematico fu quello del francese Jean Laborde, ex naufrago e prigioniero, che divenne armiere e consigliere personale della sovrana.
Laborde, sospettato anche di essere l’amante della regina, fondò una sorta di centro proto-industriale vicino ad Antananarivo, dove si fabbricavano armi, attrezzature militari e persino beni di lusso come lo zucchero in zollette e i parafulmini. Durante il suo regno, pochi stranieri riuscirono a penetrare negli altopiani centrali. Uno dei rari casi fu quello dell’intrepida viaggiatrice austriaca Ida Pfeiffer, che nel 1857 raggiunse Antananarivo e fu ricevuta dalla regina, che però la costrinse a esibirsi come pianista sotto il balcone del palazzo reale, senza invitarla a entrare.
La morte della regina
Nonostante il clima repressivo, la struttura dello Stato Merina si rafforzò durante il suo regno. L’amministrazione fu centralizzata, l’esercito riorganizzato, i lavori pubblici proseguiti. Ma il prezzo fu altissimo. Secondo alcune stime, durante la sua reggenza morirono oltre 150.000 persone per persecuzioni religiose, guerre e prove rituali. La regina riuscì a mantenere la sovranità malgascia in un periodo in cui gran parte dell’Africa veniva spartita tra le potenze coloniali, ma al costo dell’isolamento internazionale e della soppressione violenta di ogni dissenso.
La morte di Ranavalona I nel 1861 segnò la fine di un’era di ferro. Il suo regno lasciò un’eredità ambigua. Le sue scelte influenzarono profondamente i decenni successivi, aprendo la strada a un ritorno massiccio delle influenze europee e alla ripresa della penetrazione missionaria.
Il ritorno degli europei e il protettorato francese

La morte della regina Ranavalona I nel 1861 fu accolta da molti come la fine di un’epoca buia di isolamento e repressione. Le porte del Madagascar, rimaste chiuse per decenni, si riaprirono rapidamente al mondo esterno. Il nuovo re, Radama II, figlio della defunta sovrana, si era formato sotto l’influenza di consiglieri filo-europei. Egli mostrò fin da subito un’apertura entusiastica verso le innovazioni straniere, la diplomazia internazionale e la modernizzazione del regno. Il suo breve regno (1861–1863) fu un momento di fermento politico e culturale, durante il quale si moltiplicarono i contatti con missionari, commercianti e diplomatici europei.
Sotto il suo impulso, la London Missionary Society fu invitata a tornare sull’isola nel 1862. Le missioni cristiane protestanti ripresero il loro lavoro con rinnovato vigore. James Cameron, missionario scozzese già attivo sotto Radama I, tornò e fu nominato architetto reale, contribuendo alla costruzione di chiese, scuole e palazzi ispirati all’architettura europea. L’opera di alfabetizzazione in lingua malgascia riprese a pieno ritmo e si sviluppò una vera e propria editoria indigena protestante. Al ritorno della LMS seguirono le missioni anglicane (1864), quacchere (1867) e luterane norvegesi (1866), ciascuna delle quali si stabilì in una regione diversa dell’isola, portando istruzione, sanità e artigianato.
Conversione al protestantesimo e presenza inglese
In parallelo alla rinascita protestante, si assistette alla conversione ufficiale dei sovrani Merina al cristianesimo. All’incoronazione della regina Ranavalona II nel 1868, il baldacchino reale fu decorato non più da idoli tradizionali, ma da versetti della Bibbia. Qualche mese dopo, la sovrana e suo marito — il potente primo ministro Rainilaiarivony — si fecero battezzare pubblicamente, abbandonando i culti ancestrali. Il gesto segnò un momento decisivo. Il protestantesimo divenne la religione ufficiale dello Stato, e migliaia di malgasci seguirono l’esempio della famiglia reale, dando origine a una massiccia conversione collettiva.
La presenza britannica divenne sempre più influente. Missionari, insegnanti, artigiani e coloni inglesi si stabilirono ad Antananarivo, che assunse l’aspetto di una città europea in miniatura. Il re e la regina ricevettero doni simbolici dalla regina Vittoria: una Bibbia decorata, fotografie della famiglia reale britannica e perfino un lampadario di vetro colorato per il palazzo reale. Questa rete di relazioni culturali e religiose rafforzò l’illusione, condivisa da molti dirigenti Merina, che il Madagascar potesse godere della protezione morale dell’Impero britannico.
Il conflitto con la Francia
Tuttavia, questa fiducia si rivelò tragicamente mal riposta. Mentre l’élite Merina si avvicinava alla Gran Bretagna sul piano culturale e religioso, la Francia non aveva mai abbandonato le proprie ambizioni coloniali sull’isola. Considerava con sospetto crescente la fitta rete di scuole e chiese protestanti, interpretandole come un’estensione dell’influenza britannica. L’occasione per intervenire si presentò nel 1883. Approfittando di dispute territoriali con la tribù Sakalava del nord-ovest — favorevole ai francesi — Parigi inviò una spedizione navale e bombardò i porti di Majunga e Tamatave.
Il conflitto, noto come la Prima guerra franco-malgascia, si concluse nel 1885 con un trattato ambiguo. Il governo Merina accettò l’insediamento di un residente francese ad Antananarivo, pur senza riconoscere formalmente un protettorato. Ma nel 1890, con l’accordo tra il governo britannico e quello francese — che prevedeva il riconoscimento dei reciproci interessi coloniali in Egitto e Madagascar — Londra cedette l’isola all’influenza di Parigi. Il destino del Madagascar fu dunque deciso senza consultare i malgasci. Rainilaiarivony si ritrovò isolato, incapace di comprendere fino in fondo che le simpatie culturali non si traducevano in garanzie politiche.
L’arrivo dei francesi
La Francia colse l’occasione per muovere con decisione. Nel 1895, un corpo di spedizione guidato dal generale Jacques Duchesne sbarcò a Majunga e marciò verso la capitale. Le truppe francesi affrontarono più il clima tropicale e le febbri che l’esercito malgascio. Tuttavia, giunsero infine ad Antananarivo. Dopo un breve bombardamento la città si arrese.
La regina Ranavalona III, succeduta alla zia nel 1893, fu costretta all’esilio in Algeria, mentre il Madagascar fu formalmente annesso all’Impero coloniale francese. La sovranità Merina fu abolita, e la lunga fase dell’indipendenza malgascia giunse a conclusione.
Colonialismo francese e resistenze

Con l’annessione del Madagascar da parte della Francia nel 1896, si aprì una nuova fase storica caratterizzata dalla costruzione di un’amministrazione coloniale centralizzata, ispirata al modello diretto e fortemente assimilazionista della Terza Repubblica francese. Il primo governatore generale dell’isola fu il celebre Joseph Gallieni, militare e amministratore coloniale di grande esperienza, già attivo in Indocina e in Africa occidentale. Gallieni fu affiancato da un altro futuro protagonista del colonialismo francese: il giovane Hubert Lyautey, che applicò nell’isola alcune delle strategie che avrebbe poi raffinato in Marocco.
Fin dal principio, i francesi cercarono di smantellare il potere della nobiltà Merina, vista come l’élite che aveva osato resistere all’annessione. Furono quindi favoriti i gruppi etnici periferici, meno istruiti e più facilmente cooptabili. Si trattava di una politica nota come politique des races, che puntava a dividere per governare. A ciò si accompagnò un’energica repressione delle insurrezioni filo-Merina, soprattutto nelle regioni dell’altopiano centrale, dove la lealtà alla monarchia spodestata restava viva. Il partito nobiliare locale, conosciuto come menalamba (“vestiti di fango”), organizzò una guerriglia tra il 1896 e il 1897, che fu duramente repressa con arresti di massa, deportazioni e fucilazioni.
Organizzazione e missione civilizzatrice
Parallelamente, l’amministrazione coloniale intraprese un vasto programma di infrastrutturazione e modernizzazione. Furono costruite strade, ponti, linee telegrafiche e, soprattutto, una ferrovia tra Antananarivo e il porto orientale di Toamasina, completata nei primi decenni del Novecento. L’obiettivo era duplice. Da un lato facilitare il movimento delle truppe e dall’altro sfruttare economicamente l’entroterra, favorendo l’esportazione di riso, caffè, vaniglia e minerali. Le terre migliori furono assegnate a grandi compagnie agricole francesi, mentre la manodopera indigena fu costretta a prestare lavoro forzato, una pratica che alimentò il malcontento diffuso.
L’intento della Francia non era solo economico, ma anche culturale e ideologico. Si cercò di “civilizzare” la popolazione malgascia attraverso l’assimilazione ai valori francesi. Le scuole pubbliche introdussero il francese come lingua ufficiale dell’istruzione, della giustizia e dell’amministrazione. Anche il diritto consuetudinario fu lentamente sostituito con il codice napoleonico. Gli insegnanti francesi formarono le future élite coloniali tra le fila dei figli dei capi locali.
La forza delle tradizioni
Tuttavia, nonostante la diffusione della lingua e dei costumi francesi tra le classi dirigenti urbane, la maggioranza della popolazione rurale rimase legata alle proprie tradizioni. Le cerimonie ancestrali continuarono ad essere celebrate, spesso in contrasto con la morale cristiana promossa dal clero coloniale. Si formarono due Madagascar paralleli. Uno ufficiale, francofono, urbano e amministrato, e uno profondo, rurale, ancora intimamente legato ai ritmi, alle credenze e alle strutture sociali tradizionali. Questa doppia identità non fu mai completamente sanata, e gettò le basi per molte tensioni che esploderanno nel XX secolo.
La monarchia fu abolita. Eppure, in molti villaggi, la memoria delle regine Merina, di Radama e di Ranavalona, continuava a vivere nella trasmissione orale e nel culto degli antenati. Il Madagascar divenne anche un laboratorio di esperimenti coloniali francesi. Gallieni avviò riforme sanitarie, censimenti della popolazione, piantagioni modello e programmi scolastici differenziati per “evoluti” e “indigeni”. A differenza delle colonie africane, però, il Madagascar mantenne una certa individualità storica, legata alla lunga tradizione precoloniale di uno Stato centralizzato, di una lingua unitaria e di una letteratura indigena già attiva prima dell’occupazione.
Indipendenza e modernità incompiuta
Terminata la fase della conquista e consolidato il dominio francese, il Madagascar rimase una colonia strategica dell’impero d’oltremare per oltre mezzo secolo. Tuttavia, come altrove nel mondo coloniale, il secondo Dopoguerra segnò l’inizio della fine del controllo diretto europeo. La guerra aveva messo in discussione la legittimità dei regimi coloniali e acceso le aspirazioni nazionaliste. Anche in Madagascar, le tensioni sociali, etniche ed economiche esplosero con forza.
Nel Dopoguerra, la ricostituzione dell’autorità francese si rivelò sempre più fragile. I movimenti autonomisti presero slancio, alimentati da un’élite malgascia colta e occidentalizzata, spesso formata proprio nelle scuole francesi. Tuttavia, la richiesta di autodeterminazione fu accolta con durezza. Nonostante la repressione, il processo di decolonizzazione era ormai avviato. Il Madagascar ottenne l’autonomia interna nel 1958, all’interno della Comunità francese creata da Charles de Gaulle. L’indipendenza formale arrivò il 26 giugno 1960 con la costituzione di una Repubblica sovrana che ricalcava il modello della Quinta Repubblica francese, con un sistema semipresidenziale e un parlamento bicamerale.
Il periodo post indipendenza
Il legame con l’antica metropoli, tuttavia, non si spezzò del tutto. Il Madagascar rimase fortemente dipendente dagli aiuti economici e militari della Francia. Gli accordi di cooperazione siglati dopo l’indipendenza garantirono a Parigi un’influenza pervasiva. Le forze armate malgasce continuarono a essere formate da ufficiali francesi, il franco malgascio rimase ancorato alla moneta francese, e i principali settori economici — come i trasporti, le miniere e le telecomunicazioni — restarono in mano a gruppi francesi.
A livello politico, i primi decenni dell’indipendenza furono segnati da instabilità cronica, colpi di stato e alternanza di regimi autoritari e pseudo-democratici. L’élite postcoloniale, in gran parte formata all’interno del sistema coloniale stesso, faticò a costruire un’identità nazionale autonoma e coesa. Le divisioni etniche — tra Merina e Betsimisaraka, tra gruppi cristiani e musulmani, tra popolazioni dell’altopiano e delle coste — furono strumentalizzate dalla politica, erodendo il fragile consenso.
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